Spes ed una valle da evangelizzare
<<Camminerai sugli aspidi e i basilischi, calpesterai il leone ed il drago>> (Salmo 90). La promessa d Dio, enunciata per bocca del profeta, si è compiuta in questa valle dell’Umbria. Mentre i barbari distruggevano le ultime vestigia dell’ordine romano, i rovi della disperazione soffocavano la Valnerina. Erano i tempi in cui Leone Magno fermava Attila alle frontiere dell’Occidente. In quegli anni, un uomo il cui nome suona Speranza (Spes, in latino), giunto dall’oriente assieme ai suoi discepoli in questa verde vallata, protetta tutt’intorno da colli, scrisse una delle pagine più gloriose nella storia Cristianesimo Occidentale. Spes fu il primo a trasporre, in Valnerina, l’esperienza monastica dei Padri del Deserto, inaugurata da due giganti dello Spirito: Paolo l’anacoreta, la cui fossa sepolcrale secondo la leggenda fu scavata da fulvi leoni, e Antonio Abate, detto “Il Grande”. I primi discepoli di Spes furono Eutizio, o Eutichio (letteralmente “Fortunato“), e Fiorenzo il cui nome sa di primavera. Il luogo scelto da Speranza per la meditazione era chiuso, alle spalle, da un’alta rupe di pietra rossiccia, ricca di anfratti, che la gente del luogo chiamava e chiama tuttora “Sponga”, perché simile ad una spugna. In una di quelle cavità, sull’esempio dei Padri del Deserto, Spes pose la sua dimora, in una grotta che un tempo fu rifugio di orsi e lupi. Una tana, perché chi cerca Dio nella solitudine è una belva che ha bisogno di un rifugio per rinascere.

Un miracolo inspiegabile
Dinanzi alla grotta di Spes, l’anziano, si apre un panorama circoscritto da alture boscose che guidano lo sguardo lontano, verso monti che sfumano nell’azzurro. San Benedetto da Norcia, che presso la scuola di questi antichi asceti mosse i primi passi verso l’Alto, farà sua questa scelta ed i suoi monasteri avranno il monte alle spalle e lo spazio aperto dinanzi, per costringere lo sguardo a sposare la terra col cielo. Per quarant’anni Spes, perduta la vista, restò nelle tenebre più fitte, ma, scrive di lui San Gregorio Magno <<neppure un istante soffrì la perdita della luce interiore, sicché mentre soffriva il castigo corporale, aveva l’anima invasa da un’indicibile gioia>>. Dopo quarant’anni di buio, all’improvviso Spes tornò a vedere la sua valle sorridere sotto i raggi del sole e, tra i boschi e le vallate, scorse gli eremi sorti in quella lunghissima notte. Tra le lente volute d’incenso ed il salmodiare armonioso, Speranza si addormentò per ridestarsi tra i cori degli angeli: secondo la tradizione dalle sue labbra socchiuse, uscì una bianca colomba che, evaporando oltre il tetto, si perse nell’azzurro. Era il 28 marzo del 517.

Eutizio diventa abate
Tra i discepoli prediletti di Spes vi era Eutizio, uomo di preghiera ritiratosi, assieme a Fiorenzo, in un tugurium ubicato nella parte alta della valle. I due eremiti, pur nella solitudine imposta loro dalla regola, si aiutavano e assistevano a vicenda: il conforto della vicinanza temperava l’amaro della solitudine. Eutizio, obbedendo alla chiamata dei confratelli, dieci anni dopo la morte di Speranza, accettò di assumere il ruolo di abate, succedendo ad un precedente abate, discepolo anch’egli del fondatore. Nella sua nuova veste di abate, Eutizio non volle per sé un tetto e neppure un tugurium: si accontentò di una grotta posta, in alto, sulla rupe. Come aveva fatto Spes. Attratti dalla sua santità, moltissimi presero l’abito monastico. Giungevano da vicino e da lontano, abbandonando le proprie preoccupazioni e le case, costruendo ripari di fortuna nei boschi, nutrendo l’anima con la saggezza di Eutizio. La vallata si popolò di una pia schiera di oranti, ma anche di contadini, pastori, boscaioli, artigiani che sopperivano alle necessità dei contemplativi e con loro condividevano il nutrimento del corpo e dello spirito.

La collera di Fiorenzo
Fiorenzo, invece, era rimasto lassù, lontano dalla civiltà, a pregare tra i fiori d’estate e le neve invernali. Dopo la partenza di Eutizio, aveva chiesto a Dio un compagno e, un bel giorno, aveva trovato fuori dall’uscio un ispido orso possente che faceva atto di sottomissione nei confronti di quell’uomo irsuto che parlava con gli angeli. L’orso divenne il pastore di Fiorenzo: portava il piccolo gregge al pascolo e lo riportava indietro, ogni giorno, al tramonto. Ma un giorno non fece ritorno. L’invidia, che alligna anche tra gli stalli monastici, aveva armato la mano dei suoi confratello. Fiorenzo pianse la morte del suo amico silvestre, poi invocò l’ira divina contro gli assassini di quella belva innocente. Ed essi morirono, uno dopo l’altro. Fiorenzo chiese perdono, e passò il resto della sua vita a pregare per loro.
Riproduzione riservata ©