Il pero, frutto dell’amore trionfante
Appartenente alla famiglia delle Rosacee, il pero (Pirus comunis) è originario dell’Eurasia. L’albero, dal tronco robusto, può raggiungere i 15 metri di altezza. Il legno del pero, compatto e di color rossiccio, è annoverato tra i legni pregiati e i presta assai bene ad essere tornito. Gli stetoscopi di un tempo, per esempio, venivano ricavati dal legno del pero. Le foglie sono ovali, coriacee, a margine intero o finemente dentato; fiorisce da aprile a maggio, con fiori bianchi a 5 petali. Oltre al pero coltivato, vi è il pero selvatico, o perastro (Pirus communis piraster), arbusto dai rami spinosi e frutti piccoli ed aspri, spontaneo nei boschi dell’Europa Centrale ed Orientale. Nelle usanze popolari della Valnerina, il pero costituisce un caratteristico dono stagionale offerto dagli innamorati alle loro fidanzate e, per questo impiego, è da considerarsi uno dei frutti più rappresentativi dell’amore.
“Lu perdònu” d’Assisi
Dai primi vespri della vigilia fino al tramonto del sole, il due di agosto, in qualsiasi chiesa o santuario francescani, i fedeli possono accedere all’indulgenza del “Perdono di Assisi“. Ecco in breve la storia: fin da adolescente, San Francesco era solito frequentare un’antica cappella innalzata, nel 342, da alcuni eremiti in onore della Madonna ai piedi dell’altura sulla quale sorge Assisi. Una notte, il Santo ebbe la visione di Cristo e di Maria, attorniati da una schiera di angeli. Gesù chiese a Francesco quale grazia volesse e questi chiede che ai fedeli giunti in visita alla Porziuncola fosse concessa l’indulgenza plenaria. Concessa la grazia, Gesù ingiunse a Francesco di recarsi dal pontefice Onorio III perché decretasse de iure l’indulgenza libera, universale e perpetua. Il Papa si mostrò perplesso: gli si chiedeva qualcosa di inaudito. Vista l’esitazione del pontefice, Francesco disse che Cristo, avendo concesso quel privilegio speciale, avrebbe saputo compiere la promessa nei migliori dei modi. Nel mese di gennaio del 1223, mentre in preghiera, Francesco fu tentato in modo così violento che, per sfuggire al peccato, si denudò rotolandosi nei rovi che crescevano nei pressi della Porziuncola. Mentre si sottoponeva a quella severa disciplina, all’improvviso, si trovò vestito di una candida veste e sui rami spogli fiorirono alcune rose. Apparve Gesù e ingiunse di fissare, come data per l’indulgenza plenaria, il periodo che va dal pomeriggio del primo di agosto, ricorrenza della liberazione di san Pietro dal carcere, fino alla sera del giorno seguente, festa della Madonna degli Angeli. Francesco tornò dal papa mostrando le rose e raccontando l’accaduto. Fu così che il pontefice riconobbe l’indulgenza. Nel 1678 Papa Innocenzo XI applicò l’indulgenza alle anime dei defunti e, nel 1699, Innocenzo XII dichiarò l’indulgenza perpetua valida anche in occasione dell’Anno Santo, quando ogni altra indulgenza, salvo quella lucrata recandosi a Roma in pellegrinaggio, è sospesa. Papa Benedetto XIV proclamò in forma solenne il Perdono di Assisi.
L’“ammorda”
A Cerreto di Spoleto, prima del due agosto, festa del Perdono, presso la Chiesa della Madonna di Costantinopoli, si celebrava un triduo. In quell’occasione, secondo la tradizione, i fidanzati erano tenuti a regalare alla propria innamorata un sacchetto di pere, ma, più spesso, i sapori frutti erano raccolti dentro il grande fazzoletto dai colori vivaci che i contadini portavano al collo. L’usanza prendeva il nome di “l’ammorda de le pera” – l’involto delle pere – e, oltre ad essere un segno d’affetto, il dono delle pere costituiva una sorta di proclamazione pubblica dell’avvenuto fidanzamento. Oltre al nome di “ammorda”, il regalare dei gustosi frutti prende il nome di “legaccia”, derivato dall’uso di legare assieme le quattro estremità del grande fazzoletto contente le pere. Con il termine “legaccia”, inoltre, si faceva riferimento ai cibi destinati alla sontuosa colazione di Pasqua, posti nel “fazzolettone” colorato che attendeva la benedizione del parroco.
La “sfazzolettata”
A Castelluccio di Norcia vigeva un’usanza simile a quella dell’“ammorda” cerretana: la vigilia di Ferragosto il pretendente, accompagnato dal suonatore di organetto, faceva la serenata sotto le finestre dell’amata. Al mattino seguente, un amico del pretendente in veste d’ambasciatore consegnava alla corteggiata un fazzoletto pieno di pere. Se la ragazza accettava il dono, la domenica successiva preparava un dolce e, assieme a colui che aspirava al suo amore, partecipava ad una festa da ballo che sanciva pubblicamente il fidanzamento. Esaminando queste due usanze amorose della Valnerina, viene spontaneo chiedersi perché i fidanzati regalassero alle proprie consorti le pere e non altri frutti che, magari, maturano solitamente in quello stesso periodo. La risposta va ricercata procedendo a ritroso nel tempo, fino a giungere all’antica Grecia dove il pero, a cagione dei suoi frutti bianchi, era sacro a Selene (titanide della Luna) e ad Hera, moglie di Zeus, nella sua funzione di sposa e madre. Non a caso le statue di Hera, a volte, come nel suo tempio – lo Heraion – di Micene erano scolpite nel legno di pero. La forma frutto, per chi sia totalmente ignaro di mitologia greca, evoca l’immagine opulenta di una donna dai fianchi possenti, simile alle veneri del Paleolitico, auspicio di fecondità e maternità.
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