Il clima festoso che caratterizzava la raccolta del frumento, momento di gioia e di vittoria che induceva a celebrare la vita in tutta la sua pienezza, favoriva il sorgere e l’intrecciarsi di relazioni amorose sia perché i braccianti assoldati per la mietitura, spesso provenienti da luoghi distanti, lavoravano insieme alle ragazze del posto, sia perché dopo ogni giornata di faticoso lavoro sotto la sferza del solleone, quando scendeva la sera, si usava partecipare ad un allegro convivio. Non a caso la copiosa e frizzante messe di stornelli cantati in occasione della mietitura testimonia la speciale intensità d’una pulsione erotica che, in altre occasioni, sarebbe stata giudicata inopportuna o illecita. Sul finire dell’Ottocento Caterina Pigorini, celebre scrittrice italiana, si stupiva di quella promiscuità tra ragazzi e ragazze che falciavano curvi l’uno al fianco dell’altra, avvicinando pericolosamente le teste per cantarsi negli orecchi strofe d’amore.

Un fanciullo sorride stupito all’obiettivo della fotocamera mentre gli uomini del villaggio partecipano alla mietitura.
Al sorgere del sole, in tutto il contado della Valnerina, i braccianti intonavano musicali canti mattutini, detti “diane”, per incitare i compagni ad iniziare celermente il giorno in vista della quantità di lavoro che uomini e donne avrebbero dovuto svolgere. Il riferimento al “giorno chiaro” è eufemistico perché in realtà, quand’era tempo di mietere, ci si alzava prima dell’alba e le donne si “arrizzavano” ancor prima degli uomini per i gravosi turni in cucina.
“Arrizzate Marì chè jorn’è fattu
lu pòrcu sta a strillaà jo lu stallittu (bis)
perché je manca l’acqua jo lu tròccu.” (bis)

Contadini e contadine alle prese con la mietitura e con gli strumenti che il progresso tecnologico del tempo metteva loro a disposizione.
Durante la mietitura, oltre alle strofe dedicate alla circostanza, si cantavano tutti gli stornelli del repertorio tradizionale senza risparmiare le intraprendenze amorose del clero, che al tempo suscitavano non poco scalpore. In molte strofe compare il tema della bella lasciata nel paese d’origine dall’innamorato che è andato lontano a mietere e teme che, la sua dolce metà, possa diventare vittima di un prete intraprendente. Si tratta di un motivo antico che compare in molte raccolte ottocentesche anche fuori dall’Umbria, come, ad esempio, in un quaderno manoscritto della collezione Saveri – Mercadante conservato nella sezione antiquaria della Biblioteca Paroniana di Rieti.
“Zì’ prete, zì’ prete
no’ scappa quannose mète
sennò ‘ste femmenacce
te tajano le bisacce.”

Braccianti che, armati di “sirricchiu”, posano per una delle rare foto che li ritrae intenti nel duro lavoro dei campi.
Quando i braccianti vedevano giungere da lontano la padrona, o la figlia, col cesto colmo di vivande sulla testa e la “cupella” del vino in mano, usavano agitare le falci e gridare la loro esultanza con quanto fiato avevano in corpo. Nel Cerretano ed in Val di Narco tale usanza era detta “alluccata” mentre nel Nursino veniva chiamata “vivata”. Non mancavano, inoltre, strofe dirette all’indirizzo del padrone scontento del lavoro e restio a sborsare le paghe dei braccianti.
“E’ notte, è notte e lu patrò’ sospira
dice ch’è stata curta la jornata.
Zittu, patrone mia, non sospirà
chè le jornate no’ l’ha fatte tu
e chi l’ha fatte l’ha sapute fa’,
anzi, pijà la bòrza e ‘ncumincia a pagà.”

La diffusione dei primi attrezzi agricoli a motore allievò in maniera significativa le fatiche dei contadini che, sotto il sole, svolgevano la logorante vita di campagna.
Stipato il raccolto, il tempo riprendeva a scorrere con i ritmi consueti. I costumi si adattavano di nuovo alle leggi di sempre e i severi censori tornavano ad esercitare la loro funzione. Così, giunti a casa, si tornava agli “amori di prima” lasciati nel villaggio natio: quelli destinati a giungere al talamo benedetto del prete.
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