Terra maschia e terra focale
In Valnerina, fino a quando si seminò il farro esclusivamente per uso domestico, di questo cereale ne venivano coltivate due principali varietà: il farro dai chicchi bianchi e grossi e quello dai sementi piccoli e scuri. Se le condizioni atmosferiche lo permettevano, la semina del farro avveniva nel mese di marzo o di aprile. Si sceglievano terreni argillosi e scarsamente esposti al sole in modo tale che la maturazione del cereale avvenisse lentamente: la terra argillosa, infatti, è meno sensibile agli effetti della siccità. Nel gergo contadino questa era chiamata “terra maschia”, mentre la terra sciolta ,detta “focale” risultava più adatta alla coltivazione delle patate: non a caso, qualora il farro venga seminato in quest’ultimo tipo di terreno “se stregne”, ovvero il chicco rimane più piccolo o, comunque, risulta meno pieno (in dialetto si dice che è “patitu”, stentato).

La raccolta del farro
La raccolta del farro aveva inizio dopo il 10 di agosto, a seconda del grado di maturazione del cereale. Prima veniva raccolto il grano e, non appena la trebbiatura era finita e le macchine avevano abbandonato i campi, si iniziava a mietere il farro col falcetto: per trebbiarlo, si usava l’antico metodo della “trita“ il quale consisteva nel far calpestare le spighe – accuratamente raggruppate nell’aia- da un asino o da un cavallo. Anzichè ricorrere all’utilizzo degli animali da soma, alcune famiglie battevano il raccolto con un lunghi bastoni, detti “frajelli” (dal latino flagellum, colpire).

La tostatura
Successivamente, il farro trebbiato veniva stipato nel granaio fino a tardo autunno per poi essere sottoposto a tostatura nel seguente modo: dopo aver cotto il pane, si aspettava che il calore del forno diminuisse, quindi si introduceva un sacco di iuta contenente il farro e lo si lasciava nel forno sino a completo raffreddamento del medesimo. In tal modo, il farro “se ‘ncrocchiava“. Tostandosi, il chicco s’induriva e risultava più agevole rimuovere il tegumento esterno, detto “cama”. Una volta tostato, il farro veniva riposto, poco per volta, in uno speciale mortaio detto “pilocca”, nome derivato dal latino pila. La “pilocca” consisteva in un tronco di cerro, alto circa un metro, largo fino ad ottanta centimetri, scavato all’interno fino a ricavare una seconda cavità più profonda. Come pestello, si usava un palo anche’esso di cerro, lavorato in maniera tale che presentasse ad entrambe le estremità due ingrossamenti di forma cilindrica, con la parte battente arrotondata. Il pestello veniva impugnato nella parte centrale e, per evitare che le mani scivolassero, la porzione che serviva da impugnatura, in alto ed in basso, era delimitata da due espansioni anulari scolpite nel legno.

Lu capistiru
Il farro liberato dalla pula era posto in un ventilabro di legno di faggio, detto “capistiru”, termine derivato dal latino capisterium che, a sua volta, deriva dal greco skaphystrion (catino). Quest’ultima operazione, compiuta quando tirava vento, serviva a separare la pula dai chicchi. Successivamente, avvalendosi di un capistiru più piccolo, si procedeva alla cernita finale. Ottenuto il farro mondato, si provvedeva a macinare volta per volta la quantità necessaria nella macina a mano, detta “macinella”, composta da due pietre rotonde. Quella inferiore, fissa, era munita di un asse centrale, di legno o di ferro, solidale alla mola. La mola superiore, dotata di un impugnatura in ferro, girava intorno all’asse centrale. Alcune “macinelle” erano provviste di una svasatura laterale atta a consentire la fuoriuscita della farina.
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