Ma quante Valnerine conosciamo? Quella dell’arte, quella della preghiera, quella del talento enogastronomico, quella dei borghi pittoreschi, quella degli scorci mozzafiato o quella capace di esprimere sapientemente il fascino più autentico dell’Umbria in ogni sua declinazione? Esiste però, anche e purtroppo, una Valnerina perduta, o forse semplicemente dimenticata. Stiamo parlando della Valnerina ferita dal terremoto, quella delle architetture ridotte a cumuli di macerie, quella delle opere d’arte violentate a più riprese dalla furia cieca della natura, quella dei santuari profanati da un destino avverso. E’ il caso della Chiesa di San Salvatore a Campi, di cui resta un pugno di pietre avvolto nel silenzio attonito dell’indifferenza generale.

Un gioiello immerso nel verde della Valle Castoriana
L’antica pieve di Santa Maria, un tempo sottoposta al controllo della vicina Abbazia di Sant’Eutizio (anch’essa pesantemente danneggiata dagli eventi sismici del 2016), divenne Chiesa di San Salvatore intorno alla prima metà del Quattrocento. Il santuario, eretto in corrispondenza di antiche ed importanti vie di comunicazione, testimoniava – attraverso i numerosi rifacimenti e la ricchezza del corredo artistico che lo decoravano – l’intensa esperienza religiosa e civile inaugurata nella Valle Castoriana dal movimento benedettino. La chiesa, di cui restano solamente brandelli di mura, si componeva di due edifici: al più antico, collocato a sinistra e realizzato nel Trecento, venne aggiunta – circa un secolo dopo – la sezione di destra, simmetrica ed anch’essa munita di rosone. All’interno, una scalinata in pietra consentiva di accedere alla parte superiore dell’iconostasi, dove era venerato il miracoloso crocifisso ligneo che diede il nuovo nome all’antica pieve. L’opera, originariamente, era alloggiata in una mostra lignea cinquecentesca, dietro la quale era collocato un antico affresco raffigurante la Madre Vergine con San Giovanni Evangelista ed angeli che raccolgono in calici il sangue del Salvatore: il dipinto, coi nomi dei committenti e del pievano don Marco d’ Angelo da Riofreddo, è datato 1446.

L’Ultima Cena di Nicolò da Siena
La scena campisce l’intera lunetta, divisa nel mezzo da una colonnina dipinta. Attorno alla lunga tavola coperta da una bianca tovaglia di lino, sono seduti gli apostoli i cui nomi in caratteri in carattere gotici sembrano frange del lino festivo. Gesù occupa il centro insieme a Giovanni che reclina il capo sul suo cuore. Alla sua destra, Pietro, alla sua sinistra Giacomo il minore. Giuda è seduto dall’altro lato della mensa – vale a dire extra ecclesiam – e si serve dallo stesso piatto cui attinge Gesù. La realtà storica, però, è diversa: Gesù ed i suoi discepoli consumarono il banchetto sdraiati su triclini, appoggiati al gomito sinistro, il torace sostenuto dai cuscini. Per quanto riguarda l’intingere il pane in un piatto comune, vi è da ricordare che Cristo ed i dodici stavano celebrando la Pasqua all’uso ebraico: la tradizione, infatti, imponeva la presenza di coppe contenenti una speciale salsa in cui i celebranti attingevano a turno il loro pezzo di pane azzimo insieme ad erbe agresti.

Il Risorto di Giovanni Sparapane
L’angelo annuncia alle pie donne, giunte coi vasi degli unguenti, che quel sepolcro è ormai vuoto. Esse non possono vedere il Risorto che, in candide vesti, scavalca la fredda pietra che per tre giorni ne contenne il corpo. Nel vento del primo mattino che soffia sul nuovo mondo, ondeggia un bianco vessillo crociato, segno della vittoria sulla morte. Un angelo mostra un cartiglio su cui si legge: << Ihesum queritis nazarenus surexit sicut dixit non est hic >>. Secondo la tradizione, Gesù fu sepolto subito dopo morto, prima del tramonto, come prescriveva la Legge. I membri del sinedrio, per festeggiare la Pasqua, avevano badato ad osservare con scrupolo questa prescrizione. Giuseppe d’Arimatea (Ramathain, oggi Rentis) era membro del sinedrio e, segretamente, discepolo di Gesù. Chiesto ed ottenuto da Pilato il corpo del suppliziato, Giuseppe comprò una sindone di lino mentre Nicodemo, anch’egli membro del sinedrio e seguace di Gesù, portò gli unguenti necessari a preparare il corpo: circa cento libbre di mirra ed aloe.

Riproduzione riservata ©