Lu callaru
Il calderone, detto “callaru”, era il principale protagonista della cucina rustica umbra. Appeso alla catena del focolare, era utilizzato per riscaldare notevoli quantità d’acqua mantenendola calda per ogni necessità. Il calderone, la cui capacità variava a seconda delle esigenze del nucleo famigliare e degli usi cui era destinato, era di rame stagnato all’interno e munito di un’ansa semicircolare mobile, assicurata al corpo da due asole in ferro tenute ferme da rivetti. “Lu callaru” usato per bollire l’acqua destinata ai panni – come pure quello utilizzato per fare il formaggio – aveva una capienza di oltre 20 litri. A proposito del calderone, non mancava un uso rituale del medesimo: per liberare i bambini dalle stregonerie, in varie parti della Valnerina, si facevano bollire i loro panni in un paiolo per costringere la strega a manifestarsi. In genere, costei bussava alla porta di casa per chiedere in prestito qualcosa rivelando, in tal modo, la propria identità.

in riferimento alle molteplici tipologie di cottura che lo caratterizzano.
La spianatora
Immancabile, nella cucina rurale, era la tavola sulla quale veniva lavorata la pasta – la “spianatora” – cui s’accompagnavano il matterello utilizzato per stendere la sfoglia, detto “stinnituru”. Questi due utensili, di solito, erano ricavati dal legno di faggio. I matterelli più pregiati (spesso trasmessi da madre a figlia come veri e propri emblemi di status symbol) erano di legno di ciliegio. Oltre che per preparare la sfoglia della pasta fatta in casa, la spianatora era usata come superficie per stendervi la polenta di farro o di granturco, la quale veniva servita in tavola direttamente su di essa.

Il capistiru
Tra i recipienti di legno utilizzati in cucina vi era il “capistiru”, di forma rettangolare, scavato in una tavola di faggio, secondo il detto popolare “Li capistiri se fau de fau”: i capistiri si fanno di faggio. L’attrezzo in questione deriva il nome dal latino capisterium, a causa della forma che richiama quella d’uno scafo. Il capistiru più piccolo serviva per mondare i cereali ed i legumi (specialmente le lenticchie), mentre quello più grande – che conservava la medesima forma – era utilizzato per ventilare il grano e, soprattutto, il farro. Molta utilizzato era anche la “battilonta”, un tagliere di forma rettangolare che – ricavato da una robusta e spessa tavola di quercia – era utilizzato per preparare il battuto del lardo destinato ad insaporire molte delle ricette tradizionali.

Qualche piccola curiosità…
Pentole e tegami di medie e piccole dimensioni erano disposti, a differenza del calderone, su treppiedi in ferro di forma circolare. Tra i recipienti meritevoli di menzione vi è la “tegghia“, utilizzata generalmente per cuocere sotto la brace focacce dolci o salate. A quest’uopo, la focaccia, poggiata sul piano del focolare, veniva coperta dalla “tegghia” capovolta sulla quale si sistemava la brace avendo cura di stendere su di essa una spessa coltre di cenere. L’uso della “tegghia” – come documenta il nome derivante dal latino tegula – è da intendersi come la prosecuzione di antichissimi usi italici che prevedevano la copertura della focaccia mediante una tegola piana. Di frequente utilizzo era anche il “bruschino”, con il quale veniva tostato l’orzo. Si trattava di un cilindro di lamiera, munito di sportello, dalle cui estremità si dipartivano in senso longitudinale due tondini di ferro i quali permettevano di girarlo comodamente sul fuoco.

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