Un abbazia da visitare
Ai piedi di un’altura boscosa dalle forme materne, poggiata su prati che la primavera cosparge di fiori, l’Abbazia dei Santi Felice e Mauro, in Val di Narco, spicca nel verde col candore delle sue pietre. Il canto sommesso del Nera l’avvolge di frescura. Una pace serena si distende su tutto, insinuandosi nell’anima come un soffio di luce. Per un attimo, che svela l’eterno, questa mirabile visione invita a dimenticare che possa esistere qualcosa d’altro oltre quei prati, oltre i confini segnati dal letto del fiume, al di là dei colli che circoscrivono l’orizzonte ed il pensiero. Al centro della facciata della chiesa, sullo sfondo delle vetrate che imprigionano la penombra del tempio, si dispiega la trina aerea del rosone. Più in basso, sul fregio, gli scalpellini non raffigurano pii oranti, ma un santo barbato, assistito dagli angeli, che brandisce una grande ascia di guerra per colpire un drago. La bestia, l’alabarda pronta ad uccidere, gli angeli schierati a difesa: una vicenda che sembra offendere quest’angolo di paradiso. Ma essi sono lì per narrare una storia antica, una storia di fede e di amore, di coraggio e di orrori. Narrano di un uomo pio, Mauro, giunto dalla Siria per cammini inimmaginabili, assieme al figlioletto Felice ed alla nutrice fedele. Fuggivano, come molti altri cristiani, da quelli che non credevano nella natura umana di Cristo, ed uccidevano chi credeva altrimenti.

Il morbus draconis
Mauro era giunto in Umbria seguendo i passi dei grandi asceti che, tra i monti della Valnerina, combattevano i demoni nelle selve ancora sacre ai pagani. Cercava la pace, Mauro, e Dio, che tra i boschi e la roccia dà la pace. Ma aveva trovato la guerra tra quelle verdi colline, e genti spaurite, in fuga dinanzi alle orde dei barbari che desolavano la loro terra. Gente antica e tenace, umbri del Nera, cui erano rimasti solo ricordi dei placidi buoi che aravano i campi, delle greggi sparse tra i pascoli, prima che tra i rovi e le tombe si aggirasse il cinghiale. All’arrivo di Mauro, nel VI secolo d.C., in questo angolo di Valnerina si estendevano acquitrini malsani. La gente moriva di febbri palustri: “morbus draconis” era detta la malaria, diffusa dall’alito mefitico dei draghi che, nell’immaginario del tempo, dimoravano nelle paludi. Abbandonati a sé stessi, isolati dal resto del mondo che s’era rifugiato nelle mura cittadine, i contadini del Nera, l’antico Nahar, praticavano culti ancestrali nei boschi, negli oscuri antri fatidici dove le sibille penetravano i misteri del tempo. Era questo il secondo drago contro cui lottare: un paganesimo residuale senza più regole né punti ideali di riferimento, che lentamente sprofondava nella superstizione e nella magia.

Cosa ci fanno i pini di Aleppo in Valnerina?
La leggenda narra che aveva Mauro avesse portato con sé un bordone ricavato da un pino della sua terra e che, prima di combattere col drago, l’avesse piantato al suolo chiedendo l’aiuto divino. Il bordone germogliò, segno che Dio benediceva l’impresa. I “pini di Aleppo”, che verdeggiano tra Sant’Anatolia di Narco e Castel San Felice, narrano i vecchi, sono figli di quel sacro bordone. Mauro apparteneva a quei monaci che, prima ancora di insegnare al prossimo che Dio è Amore, cercavano di dimostrarne l’esistenza attraverso opere che rendono migliore la vita. Monaci che, come Benedetto da Norcia, avevano imparato dagli antichi romani le tecniche di costruzione e le leggi dell’ingegneria idraulica ponendo quelle arti al servizio di Dio e del prossimo. Fu così che Mauro uccise il drago: bonificando le paludi, piantando la Croce assieme a conifere salutari che rendessero salubre l’aria.

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