“Lu stucchiu”
In Valnerina l’acero campestre – in dialetto “stucchiu” – era usato per formare siepi di recinzione dei campi e come supporto alle viti “maritate”. Nell’agricoltura tradizionale dell’Appennino, prima dell’introduzione del trattore e delle macchine agricole, si praticava l’antichissima tecnica del “campo arborato”. L’appezzamento veniva suddiviso in filari arborei e zone coltivate comprese tra un filare e l’altro, di ampiezza sufficiente a permettere di manovrare il tradizionale aratro a trazione animale. Nel “campo arborato” ad esempio, si coltivava principalmente il frumento ma si potevano anche raccogliere le ghiande e parte della legna necessaria al fabbisogno domestico.

Dagli Etruschi ai Romani, la vite maritata tra storia ed agricoltura
Dove il clima rendeva possibile la viticoltura, il vigneto, associato agli olmi ed agli aceri , oltre a permettere la coltivazione dell’uva, rendeva possibile la raccolta autunnale del fogliame da utilizzare come nutrimento per il bestiame. In questo modo, il terreno compreso tra i filari poteva essere coltivato a grano, o ad erba medica. La tecnica della “vite maritata” è una continuazione di quell’antico costume che i Romani ereditarono dagli Etruschi. Il fatto che la vita cresca alta sul suolo presenta alcuni vantaggi quali, ad esempio, la sicurezza dei grappoli posti fuori dalla portata di capre e pecore, la protezione dell’uva dalle pesanti nebbie del mattino, la possibilità di coltivare la vite anche in terreni parzialmente pantanosi.

“J’oppiu’ casa ‘mpiccia e focò smorza”
In tutta la Valnerina, l’acero era ritenuto immune dalla folgore perché sotto le sue fronde ci si era riparata la Madonna durante la fuga in Egitto. Esistono, tuttavia, due differenti tipologie di acero: l’acero propriamente detto e “l’oppiu bastardu”, altrimenti noto come “stucchio”. Quest’ultimo, che presenta numerosi ramoscelli disposti radialmente intorno al fusto, era utilizzato per fabbricare lo “squajalatte”: la frusta utilizzata per agitare il latte durante la lavorazione del formaggio.Relativamente all’acero campestre, un antico detto umbro recita: “j’oppiù casa ‘mpiccia e focò smorza”. In tutto l’Appennino si credeva, infatti, che il legno di questo arbusto, poiché aveva protetto Maria ed il Bambino dai fulmini, fosse inattaccabile dal fuoco. A differenza di quanto asserisce la credenza popolare, il legno chiarissimo dell’acero campestre, invece, “è ottimo da bruciare“. Il tabù riguardante l’arsione di questa pianta, dunque, sotto pretesto religioso, è volto a riaffermare e perpetuare nel tempo l’osservanza che va rivolta ad un albero ritenuto efficace protezione dai fulmini.

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