Che siano attimi lunghi pochi secondi o pagine e pagine di secoli che si susseguono, esistono momenti – nella storia di ogni territorio – destinati a cambiare profondamente il corso degli eventi. 30 Ottobre 2016, l’orologio segna le ore 7.40, in Valnerina la terra trema: una violenta scossa di terremoto, di 6.5 gradi magnitudo, distrugge l’Abbazia di Sant’Eutizio, cuore spirituale ed artistico dell’Appennino Centrale. In quella domenica d’autunno, a cadere rovinosamente a terra non è soltanto l’iconico campanile del santuario. Nella morsa della polvere giace, infatti, un opera oggi perduta, una crocifissione che reca la firma del Pomarancio, al secolo Antonio Circignani.
LE IMMAGINI PROPOSTE DI SEGUITO SONO ANTECEDENTI AI TERREMOTI DEL 2016
La Crocifissione tra i Santi Spes ed Eutizio
Sotto il cielo che s’oscura e rinserra sulla terra colpevole, il Cristo è appena stirato: l’angioletto di sinistra pronuncia il “consummatum est“. Dietro l’infame legno, sul punto di svanire nelle tenebre che si infittiscono, s’intravede una città: Preci. I due santi, insigniti della dignità vescovile, sono Eutitius – a sinistra – col libro della Regula che fece adottare dai suoi monaci e, a destra, Spes. Abati, entrambi con i pastorali in pugno, perché la responsabilità derivante dalla funzione non può essere occultata al cospetto di Dio, che vengono rappresentanti nel mentre depongono rispettosamente la mitria ai piedi della croce, poiché ogni gerarchia cessa di essere tale al cospetto di Dio.
I due santi abati furono le guide spirituali dei primi anacoreti stabilitisi nella Valle Castoriana, o di Campli, fondando uno dei più antichi nuclei monastici in terra umbra. Spes – “Speranza” – divenne abate intorno al 470 , circa venticinque prima che le orde dei Goti desolassero la contrada. Di lui papa Gregorio Magno parlò come “padre venerabile” che, nella direzione della vita spirituale, non aveva imparato dai libri ma aveva insegnato quanto aveva appreso dalla sua profonda ascesi: “quod agendo dedicerat“. Abate per quarantacinque anni, rimase cieco per quaranta ma, poco prima di morire, quando riacquistò la vista e poté visitare gli anacoreti della valle, ebbe la gioia di raccogliere i frutti della sua opera, svolta durante l’assenza della vita terrena. Morì in un lontano 28 di marzo, esalando l’anima come candida colomba, che trapassando le tegole del tetto, si perse nell’azzurro. Eletto abate nel 526, Eutizio fu costretto a lasciare il suo eremo montano stabilito in una grotta. Di lui Gregorio Magno ricorda l’infaticabile zelo evangelizzatore non solo nella guida spirituale dei suoi monaci, ma nel portare la Parola alle genti della sua terra spodestate dalle guerre, atterrite dai massacri, afflitte dalla povertà ma animate da una fede che le spingeva a credere in Dio ed a cercare in lui la pace che la storia aveva negata. Eutizio sostituì la regola primitiva – di Agostino o di Basilio – con quella di Benedetto di Norcia indossando la lunga cocolla dei “monaci neri”. Morì il 23 maggio del 540. L’ostensione del cilicio di Eutizio in epoche di grande siccità – dal tempo dei Longobardi sino al 1883 (anno in cui venne rubato) – propiziava il dono della pioggia “in tale abbondanza che la terra ne restava imbevuta”.
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