<< I monti sono maestri muti e fanno discepoli silenziosi>>, scriveva Goethe. Maestri inflessibili che evocano nell’animo di chi li ascolta la magia ed i tormenti del silenzio. Luoghi ancestrali in cui si realizza l’unione di terra e cielo, in cui la verticalità si fonde con la massa, con la pesantezza della terra. Cattedrali di pietra e di ricordi dove la caducità del terreno si eleva a contatto con il celeste. L’Altipiano di Chiavano non è altro che il ponte di roccia che mantiene ancora saldo il rapporto tra la terra e il cielo, palcoscenico di un antico anfiteatro le cui platee si perdono tra mosaici di nubi. Un ponte gettato tra passato e futuro, sospeso tra una clessidra che sembra essersi fermata ed una natura che ogni giorno si rinnova.
E’ come se il pennello di un pittore avesse indugiato su questa parte della Valnerina tracciando il profilo di paesi e campagne in cui l’essere umano si è prontamente insinuato. Ma mai la natura si è prestata docile all’intervento dell’uomo: piccoli fondi ricavati dalla montagna, pascoli improvvisati e tratturi acerbi che si perdono nel cuore dell’Altipiano sembrano ricordare a chi li osserva che qui la Natura sempre si manifesta secondo l’ideale leopardiano: madre e matrigna, doppia faccia della stessa medaglia. Modellata dalle fatiche umane fino ad assumere un profilo quasi umano, la campagna appare composta, quasi assopita, in un vortice di colori pastello e giochi d’ombra,in un incedere cromatico molto più simile ai paesaggi umanizzati dell’antica Scozia che al tipico ambiente collinare umbro.
In tempi di rovinosa perdita dell’identità culturale l’Altipiano di Chiavano conserva gelosamente tracce polverose di una tradizione popolare ancora viva, che resiste in maniera stoica alla scomparsa dei suoi più antichi tesorieri. Una tradizione popolare considerabile come il riassunto di molte vite, capace di penetrare in modo misterioso il senso delle cose, anche di quelle apparentemente più banali. In prossimità di un punto di snodo dell’antico sistema viario romano sorge Coronella, località che deve il suo nome al latino Colonnella, termine con cui si faceva riferimento ad una colonna di marmo utilizzata dai romani come asse di riferimento nella realizzazione di un qualunque sistema viario. Un paese fantasma, che appare e scompare dietro alberi cresciuti in orti abbandonati, un paese che vive solamente il 15 di Agosto, giorno in cui si riaprono gli scuri della chiesa, in una festività tanto semplice quanto sentita. Il mistero della fede che rivive in processioni improvvisate, in edicole sacre che indicano la strada da seguire al pastore ed al gregge per la via montagna, in quelle scalate che sono soprattutto esperienze di vita
Sulla quinta scenografica di queste vette si proiettano composte ed ordinate le ombre degli abitati vuoti e silenziosi, inermi al trascorrere inesorabile del tempo. Ma è proprio questo silenzio che lascia spazio all’introspezione, un silenzio vuoto di parole ma non di emozioni e di ricordi. Eppure di silenzi ce ne sono un’infinità e coglierne le differenze non è cosa semplice. Alcuni sono atroci: silenzi di morte e di agghiacciante solitudine mentre altri sono desiderati, lungamente attesi o sorprendentemente inaspettati. Silenzi eloquenti in cui anche il principio di non-contraddizione viene meno. Silenzi in cui convergono paura e coraggio, lacrime e sorrisi, domande e risposte, coincidentia oppositorum.
Osservare dall’alto di questi altari di pietra un paesaggio che sembra cambiare nell’aspetto ma che rimane identico nel suo lato più intimo lascia spazio proprio a silenzi inattesi che sorprendono per il fragore con cui si manifestano. Cime tempestose, ma per ciò che evocano nell’animo di chi le scruta. E allora, l’atteggiamento migliore da mettere in atto è quello dell’attenzione, quello di fermarsi a contemplare. Perché non sempre si è in grado di comprendere con immediatezza il messaggio nascosto dietro il silenzio della natura. Figure antiche, quasi sinistre, abitano questo silenzioso altipiano. Mani nodose e volti scavati dal sudore, un sudore amaro che trova il suo perché nei generosi frutti della terra. Gente abituata alla faticosa vita di montagna, che rifiuta i facili idoli del cosiddetto progresso. Ed è proprio in quelle mani nodose che va ricercato il significato più intimo di questo morboso attaccamento alla terra, di questa forte devozione alla fatica ed al lavoro, che sì nobilita ma che rende l’uomo simile alle bestia. Eppure sembra quasi che tra i contadini e la natura intercorra un rapporto quasi mistico, capace di infrangere il legame con il sacro e di mescolarsi con il profano fino a confluire come un unico corso d’acqua nel vasto oceano della tradizione popolare. Un territorio complesso che neanche il suo più antico abitante conosce nel profondo, un calderone di tradizioni, cultura e di storie le cui origini sembrano perdersi nella notte dei tempi.
Una terra che trasuda saggezza popolare, in cui si sovrappongano i fantasmi ed i ricordi di un passato lontano, ma mai dimenticato. Un passato glorioso, che affonda le sue radici nei fasti dell’antica Roma e nelle campagne circostanti il piccolo borgo di Villa San Silvestro, paese di appena 20 anime divenuto celebre per la presenza di un tempio romano probabilmente dedicato ad Ercole. Ed è proprio il caso di dirlo, con una forza quasi erculea questo sito resiste ancora oggi al freddo inverno che soffia da queste parti. La genesi dell’eroe a cui il tempio è dedicato, risultato dell’unione carnale tra la terrestre Alcmena e Giove, sembra rafforzare ulteriormente il rapporto che intercorre tra questa terra e il cielo, tra la materia ed il celeste, tra ciò che è umano ed il divino. Proprio sul podio del tempio romano sorge la chiesa del paese, nel punto in cui, in un passato neanche troppo lontano, si innalzavano cori votivi rivolti alle divinità del patheon romano, in un luogo che trasuda fede e comune timore del divino.
Eppure questa è una terra impregnata di storia, di aneddoti e personaggi passati agli annali per il loro valore ma troppo spesso dimenticati. Ed è proprio parlando di illustri personaggi che tuona il nome di Nicola Zabaglia, architetto pontificio originario di Buda la cui fama risiede nella celebre affermazione “acqua ai canapi”, con la quale riuscì a ed erigere le impalcature per la realizzazione della Cupola di San Pietro, meraviglia dell’umanità.
E se si chiudono gli occhi salendo lungo la ripida salita che porta a Chiavano sembra quasi che tra le mura dell’antico castello dei Clavano, famiglia da cui l’altipiano prende il nome e del cui passaggio resta solamente l’antica torre, squillino ancora le trombe dei musici che annunciano l’arrivo di Abrunamonte, distintosi per ardore e coraggio nelle lotte intercomunali nel primo decennio del XIV secolo. Ed è proprio da Chiavano che inizia il nostro viaggio, dalla terrazza che domina questa terra selvaggia i cui figli, sia nelle grandi gesta che in quelle quotidiane, sono riusciti ad esprimere un valore ed un ardore in alcuni casi quasi eroici, che solo chi abita ad un passo dal cielo riesce a sfoggiare nelle battaglie più dure, in quei sovraumani silenzi che fanno rumore.
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Da vedere:
Nei dintorni:
- Cascia, la Città di Santa Rita;
- Poggiodomo, la Terra del Cardinale;
- Monteleone di Spoleto ed il Museo della Biga;
- Norcia, la Città dei Santi Benedetto e Scolastica;
Itinerari suggeriti:
- Cascia – Il Tempio di Villa San Silvestro;
- Da Cascia: un viaggio all`eremo della Madonna della Stella;
- Da Cascia a Roccaporena: nei luoghi di Santa Rita;